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Sedici anni fa, il rapimento di quattro italiani in Iraq

Sedici anni fa, il 12 aprile 2004, ebbe inizio una vicenda dai risvolti inquietanti e tragici, che tenne col fiato sospeso tutto il nostro Paese fino all’8 giugno di quell’anno: in Iraq, tra Baghdad ed Amman, quattro italiani furono rapiti da un gruppo di guerriglieri islamici sunniti.

Si trattava di Maurizio Agliana, 37 anni, di Prato, Umberto Cupertino, 35 anni, di Sammichele (Bari), Fabrizio Quattrocchi, 36 anni, di Catania, residente a Genova, Salvatore Stefio, 34 anni, di Lentini (Siracusa), residente a Catenanuova (Enna). Erano arrivati in Iraq come guardie private, ingaggiate da una società statunitense, per garantire protezione armata ai loro uomini.

In un video, i quattro italiani rannicchiati a terra mostravano i loro passaporti, con i guerriglieri alle loro spalle in piedi, con le armi in pugno. I mujahiddin fedeli all’ex rais iracheno Saddam Hussein leggevano un messaggio in cui erano poste le condizioni all’Italia per il rilascio dei prigionieri: le scuse del governo per le dichiarazioni dell’allora premier Silvio Berlusconi sull’Islam, il ritiro del contingente italiano da Nassiriya, la liberazione di alcuni imam nelle mani della coalizione.

“Faremo di tutto per liberarli, ma l’Italia non cambia linea, la missione di pace dei nostri soldati non si discute”, dichiaravano il presidente del Consiglio e i ministri degli Esteri e della Difesa, Franco Frattini e Antonio Martino, rivolgendosi alla Camera e al Senato.

Confermata la linea politica intrapresa anche a seguito dell’incontro al Quirinale con il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, la sera del 14 aprile di sedici anni fa arrivava l’annuncio della tv araba Al Jazeera: uno dei sequestrati era stato ucciso, si trattava di Fabrizio Quattrocchi, che prima di morire aveva pronunciato la famosa frase “Ti faccio vedere come muore un italiano!”.

Per quasi due mesi fu un susseguirsi di appelli, manifestazioni, cortei, trattative ed interventi umanitari che potessero convincere i rapitori a riconsegnare i prigionieri alle loro famiglie: anche Giovanni Paolo II, durante l’Angelus da piazza San Pietro, invitò i criminali alla pietà.

A partire dall’intervento di Gino Strada e di altre tre persone, arrivati in Iraq per tentare di negoziare, cominciò a delinearsi la via per una risoluzione. Con l’esame del Dna venne confermato che quei resti appartenevano a Fabrizio Quattrocchi, la cui salma fu fatta rientrare in Italia per celebrare i funerali.

Solo l’8 giugno, dopo ben 56 giorni di detenzione, fu confermato finalmente il rilascio dei prigionieri, prima dalla tv polacca e, a distanza di pochi minuti, ufficialmente dal governo italiano.

Sedici anni sono ormai trascorsi, ma la brutale uccisione di Quattrocchi è una ferita che continua a sanguinare nella memoria del nostro Paese.