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Vaccino per l’Alzheimer: promettenti i risultati dei primi test

Molte sono le speranze legate al nuovo vaccino sperimentale che si prefigge lo scopo di rallentare il decorso o addirittura prevenire una delle malattie più temute dei nostri giorni, l’Alzheimer. Questo morbo rappresenta il 50%- 70% dei casi di demenza nel mondo e si stima che entro il 2050 colpirà 150 milioni di persone. La nuova ricerca legata a questo vaccino è stata presentata al congresso dell’American Heart Association di quest’anno che si è tenuta a Boston dal 31 luglio al 3 agosto 2023, evento che presenta le ultime scoperte nell’ambito delle innovazioni scientifiche e della scoperta in campo cardiovascolare.

La ricerca è condotta dall’Università di Juntendo a Tokyo e l’autore principale dello studio, il dottor Chieh-Lun Hsiao del Dipartimento di biologia e medicina cardiovascolare presso l’ateneo nipponico ha dichiarato: “Il test del nostro vaccino innovativo su topi offre una potenziale via per prevenire o modificare la malattia. La sfida futura sarà ottenere risultati simili negli esseri umani”.

In precedenza, i ricercatori della Juntendo avevano sviluppato un vaccino che mirava a eliminare le cellule senescenti che esprimono la glicoproteina associata alla senescenza (SAGP): era un vaccino senolitico che aveva migliorato diverse patologie legate all’invecchiamento come l’aterosclerosi e il diabete di tipo 2 nei topi. Un altro studio ancora aveva evidenziato che le SAGP sono altamente espresse nelle cellule gliali dei malati di Alzheimer.

In seguito ai risultati ottenuti da questi studi, i ricercatori hanno testato questo vaccino sui topi per colpire le cellule che sovraesprimono SAGP, trattando così l’Alzheimer. Per questo studio, è stato creato un modello di topo della malattia di Alzheimer che riproduce le caratteristiche di un cervello umano e simula la patologia indotta dall’amiloide beta. Le cavie, tra i due e i quattro mesi d’età, sono state divise in due gruppi: a uno è stato somministrato il vaccino SAGP e all’altro un placebo.

I risultati sono stati molto promettenti: i topi a cui era stato somministrato il vaccino SAGP, presentavano una riduzione delle placche di amiloide beta nel cervello, una diminuzione dell’infiammazione nel tessuto cerebrale e un decisivo miglioramento per quanto riguarda il comportamento e la consapevolezza dell’ambiente circostante (è proprio questo il dettaglio più significativo di questa nuova ricerca).

Solitamente le persone in cui l’Alzheimer è ad uno stadio avanzato, mancano di ansia dal momento che non sono consapevoli di ciò che le circonda. I topi che hanno ricevuto il vaccino hanno manifestato proprio ansia (erano più cauti e consapevoli dell’ambiente circostante), il che è stato interpretato dai ricercatori come un miglioramento della malattia. I topi vaccinati hanno mostrato un comportamento simile a quello dei topi sani.

In questi test, il vaccino ha ridotto di molto i depositi di amiloide beta nei tessuti cerebrali situati nella regione della corteccia cerebrale, responsabile dell’elaborazione del linguaggio, dell’attenzione e della risoluzione dei problemi. Inoltre, un altro risultato è stato la riduzione delle dimensioni delle cellule astrocitarie (cellule di supporto ai neuroni molto abbondanti nel cervello).

È necessaria però molta cautela: il professor Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione del San Raffaele di Roma, ha dichiarato a Repubblica: “In primo luogo i modelli animali di neurodegenerazione riproducono solo una parte dei sintomi e delle cause delle forme ‘sporadiche’ umane (quelle presenti nella stragrande maggioranza, visto che le forme ereditarie sono una percentuale inferiore al 5%). Inoltre, la reazione infiammatoria attorno alle placche di beta amiloide è solo una delle numerose concause di neurodegenerazione”. Rossini inoltre aggiunge che l’ipotesi di un vaccino non è nuova: “le prime sperimentazioni anche sull’uomo sono state condotte circa 25 anni orsono e poi interrotte per effetti collaterali piuttosto severi”. Saranno necessari, dunque, molti anni di sperimentazione prima che si passi all’applicazione su malati umani.

Un’altra difficoltà evidenziata da Rossini inoltre sarebbe che “il lasso di tempo che separa l’inizio dei processi di neurodegenerazione e la comparsa di sintomi clinici (ad esempio i disturbi della memoria e del comportamento) è notoriamente molto lungo”. Si pone dunque un problema; in quale fase del morbo deve essere somministrato il vaccino? Se venisse somministrato in una fase già avanzata, l’efficacia potrebbe essere minima o addirittura nulla, secondo il professor Rossini.

Sicuramente i passi in avanti rispetto alle precedenti sperimentazioni sono notevoli, ma saranno necessari ancora diversi anni di ricerca.