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Meditazione a Rebibbia: la scommessa di un monaco

Dario Doshin Girolami, maestro buddhista e fondatore del centro Zen di Roma da oltre 10 anni è riuscito ad ottenere dal Dap ( Dipartimento all’amministrazione penitenziaria) l’accesso in carcere per poter insegnare ai detenuti la disciplina della Meditazione.
L’idea di Girolami è maturata nell’86 al centro Zen di San Francisco, lì il monaco comprende profondamente quanto fosse importante riuscire a trasmettere il messaggio meditativo anche ai detenuti, affinché potessero trasformare il periodo di reclusione, in un profondo ritiro sipirituale.
Tale azione, secondo stime accertate ha oltremodo contribuito a limitare la recidiva criminale del 20 per cento.
L’esperienza in Italia non è stata accolta inizialmente a braccia aperte, dati i dinieghi delle istituzioni. E’ stato però sufficiente cambiare i termini d’espressione, e chiamare ” corso di meditazione” in ” Mindfulness” per entrare finalmente nelle carceri.
La sfida più ardua, racconta Girolami, è stata poi rappresentata dai detenuti (molti di questi serial killer ed ergastolani), che però sono riusciti ad accogliere l’esperienza di buon grado.
Molti di questi, spiega il monaco, dietro la durezza dei volti e dei corpi ricoperti di tatuaggi, nascondono in realtà anime fragili in balìa spesso di attacchi di panico, e crisi depressive. La meditazione li ha supportati anche in questi. Alcuni hanno smesso infatti di assumere psicofarmaci grazie all’esperienza di mindfulness proposta.
Bisogna insegnare loro, continua Dario Girolami, ad andare a comprendere la radice della sofferenza e limitare il meccanismo de ” la mente che va fuori”, ovvero il pensiero ossessivo del detenuto per la famiglia, la platea giudicante al di fuori delle mura del carcere. E’ importante insegnare loro, attraverso il respiro, l’importanza di vivere un istante alla volta.
Ad oggi è scientificamente attestato il benefico apporto della meditazione in ogni campo della vita.
Nelle carceri necessaria pare essere anche l”’ alfabetizzazione emotiva”, cioè l’ausilio che si offre ai detenuti nel rendere possibile per loro un riconoscimento delle emozioni, talvolta disturbanti come l’odio, la rabbia e la paura.

I medici e gli psicologi in carcere hanno potuto constatare e certificare in questi anni, che la maggior parte degli individui particolarmente aggressivi sono riusciti a gestire rabbia e odio, rendendo così possibile una dignitosa e civile vita collettiva anche in carcere.