Via dalla Birmania: 5000 migranti alla deriva

Stipati in imbarcazioni di legno sovraccariche e malsicure, senza né cibo né acqua, almeno 5.000 migranti, secondo le stime delle organizzazioni umanitarie, sono alla deriva nel mare delle Andamane, al largo delle coste thailandesi. Il 13 maggio i governi della Thailandia, dell’Indonesia e della Malesia hanno chiuso le frontiere al flusso migratorio proveniente dal Bangladesh e dalla Birmania. Da quel momento diversi barconi sono rimasti abbandonati in mare senza la possibilità di sbarcare in nessuno dei porti della regione.
Privati persino dello status di cittadini dal governo birmano, i Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana, non godono di alcun diritto civile: non possono votare e non hanno il diritto alla proprietà privata. Così ogni anno in migliaia lasciano la Birmania a causa delle violenze e delle discriminazioni che subiscono nel loro stesso Paese. Costretti a vivere in campi profughi dal 2012, quando cominciarono gli attacchi ad opera della maggioranza buddista, i Rohingya sono continuamente oggetto di violazioni dei diritti umani fondamentali.
In base ai dati raccolti dalle organizzazioni non governative, sarebbero più di 2.000 le persone sbarcate in Indonesia e Malesia tra il 10 e l’11 maggio. Temendo che l’emergenza potesse arrecare danno al turismo, il governo indonesiano e quello malese hanno deciso di respingere i barconi, condannando migliaia di disperati alla fame e agli stenti. La Thailandia, allo stesso modo, ha annunciato di non essere più disponibile ad accogliere migranti in fuga dalla Birmania, dopo la scoperta di una fossa comune al confine con la Malesia, in cui sono stati nascosti corpi senza di vita di centinaia di birmani Rohingya. Più di 600 invece i migranti raggiunti nei giorni scorsi da pescherecci indonesiani. Carburante e generi di prima necessità gli unici aiuti concessi dallo Stato indonesiano, o eventualmente il soccorso in caso di naufragio.
Dopo l’appello lanciato il 14 maggio dall’Arakan Rohingya National Organisation (ARNO), l’organizzazione nazionale per i diritti dei Rohingya, oggi, 18 maggio, è arrivata la condanna delle Nazioni Unite contro le politiche di respingimento adottate dai Paesi del Sudest asiatico. Ancora troppo poco. A detta dell’ARNO, la situazione nel mare delle Andamane necessita di un intervento immediato da parte dell’Onu, capace di apportare una soluzione valida e di lungo termine. La questione, denuncia ancora l’ARNO, rientrerebbe nella sfera di intervento dell’ASEAN, tuttavia, i governi della regione preferiscono non affrontare direttamente il problema per non compromettere le relazioni economiche con il Myanmar. Un assordante silenzio, così gli attivisti dell’ARNO hanno definito l’indifferenza della comunità internazionale verso le persecuzioni perpetuate contro i Rohingya, giudicate meno rilevanti degli interessi commerciali ed energetici.
L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha definito la questione “estremamente allarmante“. Fissato per il 20 maggio a Kuala Lumpur un vertice straordinario tra i ministri degli Esteri di Malesia, Indonesia e Thailandia sull’emergenza immigrazione. La Birmania, che continua a declinare qualsiasi responsabilità sull’esodo dei Rohingya, ha fatto sapere che non prenderà parte al summit previsto per il 29 maggio a Bangkok sull’immigrazione nell’Oceano Indiano.