«But I’m not a saint yet. I’m an alcoholic. I’m a drug addict. I’m homosexual. I’m a genius» così diceva di sé lo stesso Capote in Music for Chameleons (1980). Definizioni queste che, per quanto crude, riassumono senza esagerazioni la travagliata e turbolenta vita del padre fondatore del nuovo giornalismo americano: quello della non-fiction novel; ossia quello che combina insieme il giornalismo di reportage e la finzione narrativa. Sì perché, a dispetto del carattere profondamente realistico delle sue opere, mistero e raffinatezza letteraria si fondo in esse e contribuiscono a gettar luce nei meandri psicologici più oscuri della società nordamericana del secondo dopoguerra.
Figlio di genitori separati, Truman Capote fin da piccolo trovò nella scrittura un efficace rimedio alla propria solitudine prima di bambino e poi di adolescente. Trasferitosi a New York in seguito al secondo matrimonio della madre, appena 18enne si fece assumere come fattorino preso la nota rivista letteraria New Yorker, pur di cominciare a frequentare il mondo del giornalismo da cui era grandemente attratto.
A seguito però di un disguido con il poeta Robert Frost, dopo soli due anni passati presso la testata newyorkese, Capote venne licenziato in tronco. Ancora una volta, allora, egli affidò alla penna il suo dolore e la sua frustrazione. Ne nacque il racconto Miriam – pubblicato sulla rivista femminile Mademoiselle nel 1945 – che attirò l’attenzione della critica per il suo stile gotico ed introspettivo.
Da allora, vestendo i panni dell’intellettuale dandy, inizio a frequentare i salotti mondani di New York; almeno fino alla definitiva consacrazione avvenuta nel 1948 con il romanzo Altre voci, altre stanze. L’opera colpì e di fatto lasciò un segno, non tanto per veri e propri meriti letterari o per uno stile accorato nella descrizione del vissuto di Joel – il piccolo protagonista – quanto piuttosto per i numerosi riflessi autobiografici ed il suo largo trattare delle relazioni omossessuali.
Ad innalzarlo però all’Olimpo della letteratura americana furono il suo secondo romando, Colazione da Tiffany (1958) – da cui nel 1961 fu tratto il celeberrimo film con Audrey Hepburn – e A sangue freddo (1966), inchiesta uscita a puntate proprio sulle pagine del New Yorker. Quello che per tutti era stato un banale fatto di cronaca nera – l’assassinio di un’intera famiglia (la famiglia Cutters) avvenuto nelle campagne del Kansas – divenne per Truman Capote una sorta di ragione di vita. Per sei anni, ci si dedicò anima e corpo. La critica non tardò a salutarla come il “racconto più duro e significativo degli anni Sessanta”.
In una famosa intervista – che non destò meno scalpore rispetto alle altre rilasciate fino a quel momento – egli arrivò ad affermare di aver intravisto in uno dei due giovani assassini protagonisti del fatto chi sarebbe stato se non avesse intrapreso una via diversa; se non fosse uscito “dalla propria triste infanzia dalla porta principale ma da quella sul retro”, come invece accadde per l’omicida. Tanti erano infatti i punti di contatto tra i due: una madre alcolizzata, un padre assente, la solitudine, la carenza di affetti e l’opprimente disprezzo della gente.
Se l’incredibile successo riscosso da A sangue freddo pareva averlo definitivamente sottratto all’isolamento ed al disprezzo della gente, Preghiere esaudite ve lo sprofondò nuovamente. Sebbene uscita postuma nel 1987, la preparazione dell’opera – in cui Capote puntava a raccontare con toni proustiani il lato fin troppo umano dei divi del jet set americano – gli costò l’amicizia di tutti i suoi amici ed estimatori. Da quel momento egli scivolò in una spirale di alcolismo e tossicodipendenza. A nulla valsero i vari ricoveri ed i vari ritiri in strutture specializzate nei percorsi di disintossicazione; l’Oscar Wilde contemporaneo – come da molti fu definito – morì di cirrosi epatica il 25 agosto 1984 a Bel Air (nella westside di Los Angeles, in California).