10 nomination agli Oscar 2025, 3 Golden Globee premio per la miglior regia al Festival di Venezia: The Brutalist continua a riscuotere consensi sia tra la critica che tra il pubblico grazie anche all’interpretazione di Adrien Brody. Un film dal budget ridotto ma che ha saputo sfruttare al meglio le risorse offrendo agli spettatori scene suggestive e una storia intensa dai personaggi profondamente umani. Un altro pregio del film è aver fatto conoscere al grande pubblico il brutalismo, la corrente architettonica a cui si rifà il protagonista, l’architetto ebreo László Tóth. The Brutalist è un film che ci narra le sue vicende attraverso gli spazi, gli edifici e addirittura attraverso i mobili: l’ambientazione è tutto e insieme a essa anche la scenografia.
I luoghi di The Brutalist: l’Italia e l’Ungheria
Il setting del film di Brady Corbet è principalmente americano, le vicende in particolare sono ambientate nella Pennsylvania degli anni ’50, soprattutto a Philadelphia. Tuttavia, nessuna scena del film è stata girata negli USA, sia per una scelta estetica che per una questione di budget. La maggior parte delle scene sono state girate infatti a Budapest, in Ungheria. Ci sono però due città italiane nel film: la prima è Carrara, piccola perla della Toscana, nota soprattutto per i suoi marmi e i suoi paesaggi mozzafiato. Il fascino delle sue cave dalla bellezza cruda e primitiva ha contribuito a rendere le scene efficaci e suggestive, girate appunto tra le montagne di marmo. L’altra città italiana presente nel film è Venezia durante la celebre Biennale di Venezia, in particolare quella degli anni ’80.
Tornando a Budapest, la sua architettura storica e le aree industriali ben conservate hanno offerto un contesto perfetto per Philadelphia. In particolare il quartiere industriale di Csepel Island con i suoi magazzini e le strutture in cemento è stato utilizzato per ricreare i docks di Philadelphia. Altri luoghi in cui sono state girate delle scene sono stati il Mahart Gabonatárház Kft e la Teleki Square Synagogue che hanno ricreato alla perfezione il contesto urbano dell’epoca. Per il Van Buren Institute, il vasto centro comunitario progettato dal protagonista, è stata scelta una delle location più lussuose dell’Ungheria: l’Andrassy Castle a circa 40 miglia da Budapest. Questo castello, costruito nel 1894, è un esempio di architettura aristocratica con le sue 50 stanze e i suoi giardini che insieme alle scalinate e alla sala centrale sono stati i protagonisti di molte scene del film.
Gli edifici
Magistrale è stato il lavoro della scenografa, Judy Becker che senza formazione architettonica e con un budget molto ridotto si è ispirata ad architetti modernisti come Marcel Breuere Tadao Ando per creare stanze ed edifici. Nonostante la passione per l’architettura brutalista, questa per Judy Becker è stata una sfida, dal momento che ha dovuto progettare degli edifici veri e propri: “László era un architetto di punta del XX secolo, quindi è stato piuttosto impegnativo”. La scenografa è dovuta partire dalla progettazione “come farebbe un architetto” con degli schizzi, per poi costruire un modello in scala reale. “L’edificio era descritto nella sceneggiatura fino a un certo punto, doveva rappresentare le baracche dei campi di concentramento in cui László e sua moglie Erzsebet furono imprigionati. Doveva anche rappresentare l’idea di libertà, l’orrore dei campi di concentramento e una sorta di passaggio tra László ed Erzsebet”.
Per il progetto, la scenografa ha osservato le immagini dei campi di concentramento e quelle ritraenti gli edifici brutalisti come il Salk Institute di Louis Kahn, il Johnson Wax Building di Frank Lloyd Wright e gli Skyspaces di James Turrell. Così ha ottenuto una struttura minimalista in cemento armato con un lucernario che in determinati orari proietta una croce sull’altare. Un edificio mai realizzato (infatti le riprese sono state realizzate grazie a dei modelli) ma che mostra alla perfezione le potenzialità dell’architettura brutalista.
La biblioteca
La sceneggiatura prevedeva anche una biblioteca e Becker ha dovuto proporre ben due progetti, un prima e un dopo l’intervento di Laszlo. Lo spazio, dunque, è stato completamente ripensato. Il prima prevedeva uno spazio Art Déco dalle tende rosse. Il dopo invece è uno spazio modernista dagli splendidi scaffali in legno che vanno dal pavimento al soffitto; l’occhio è portato al centro dove c’è solo una poltrona da lettura. Quello in cui viene rivelata la modernizzazione della stanza è per Becker “un grande momento del film e mi sento davvero orgogliosa ogni volta che lo vedo”.
I mobili presenti nelle scene
Per quanto riguarda i mobili, la scenografa ha cercato di unire l’ipotetica formazione di Laszlo Toth alla Bauhaus con l’influenza dell’America degli anni ’50. La decoratrice del film, Patty Cuccia, ha spedito un container di mobili vintage dal Canada all’Ungheria per il set del negozio del cugino di Lazlo, tutti mobili in stile Colonial Revival. Quasi tutti i mobili sono stati acquistati su Craig’s List e su Facebook Marketplace con un budget di 1000 dollari. Oltre ai mobili sono state inviate in Ungheria anche le carte da parati e le tende vintage. Per i mobili ideati da Laszlo invece, Becker si è ispirata ai mobili del XX secolo, compresi quelli di Breuer: tutti progetti nuovi tra cui anche la poltrona da lettura della biblioteca realizzata in acciaio tubolare e in fettuccia di pelle, elemento che rimanda alle sedie da spiaggia americane.
The Brutalist e le polemiche degli architetti
Tuttavia il film non è piaciuto a tutti e alcune critiche arrivano da diversi architetti in parte perché perpetuerebbe lo stereotipo dell’architetto come genio solitario e in parte perché sarebbe poco accurato dal punto di vista del contesto e nel descrivere tutto ciò che prevede la professione dell’architetto. Il Financial Times ha definito il film una “semplificazione quasi malata dell’architettura” dal momento che propone il cliché dell’architetto come figura geniale e tormentata che lavora da sola, mentre il progetto architettonico è uno sforzo collettivo che prevede decine di persone, dai costruttori ai designer a una squadra di altri architetti.
Lo stesso vale per gli autori di un podcast registrato appositamente che si intitola “Why ‘The Brutalist’ is a Terrible Movie”; infatti Mark Lamster, Alexandra Lange e Carolina A. Miranda hanno dichiarato che il fatto che lo stereotipo del genio solitario venga raccontato ancora oggi come esempio positivo “è incredibilmente frustrante”. Inoltre, secondo loro, i riferimenti all’architettura sarebbero fin troppo vaghi e che avrebbero potuto sfruttare meglio il richiamo al brutalismo, estetica ideale per ottenere effetti drammatici efficaci e adatti al cinema.
Anche il Washington Post non lesina critiche scrivendo che le mancanze del personaggio “si allineano perfettamente a quelle della nota caricatura degli architetti come megalomani, fanatici nella loro devozione a visioni utopiche, e brutali nella loro indifferenza per l’umanità di tutti i giorni”. Altra cosa ritenuta poco credibile è il fatto che l’opera di László Tóth venga celebrata alla Biennale d’architettura a Venezia del 1980, quando il brutalismo era ormai fuori moda.