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Storia di Pina: dall’ictus all’interrogazione parlamentare

Migliorano le condizioni di salute di Pina, la persona trans ricoverata al San Giovanni Bosco di Napoli per un ictus, e nel giorno di Pasqua i parenti e gli amici possono finalmente sperare in una ripresa; lo hanno appena annunciato i medici che la seguono. Dovrà ancora superare un lungo periodo di riabilitazione e per questo verrà a giorni spostata in una struttura adeguata.

Sono trascorsi 18 giorni dalla telefonata di un paziente ricoverato al San Giovanni Bosco di Napoli che denunciava alla Cooperativa Dedalus la presenza nella propria camera di una persona trans, vittima di un ictus, che nonostante la lunga degenza non aveva mai ricevuto alcuna visita se non la solidarietà di alcuni vicini di letto impietositi, che a turno si offrivano di imboccare la degente paralizzata. Una confidenza, quella del paziente, che ha immediatamente mobilizzato le operatrici sociali trans della Dedalus, referenti per le politiche trans Arcigay Napoli e ATN, che accorse sul posto hanno assistito a un fatto “riprovevole e lesivo della dignità della persona”: Pina, ricoverata in una reparto maschile e già negata nella sua identità di genere per un documento non conforme a essa, paralizzata, non del tutto cosciente e non in grado di parlare, veniva completamente denudata davanti a quattro uomini presenti nella stanza. Un’immagine ancora impressa nella mente di chi si è occupata di denunciare immediatamente l’accaduto, dopo aver fatto da paravento con una coperta per riparare il corpo e le grida mute negli occhi umiliati della paziente. Una foto lanciata in web e la notizia fa il giro d’Italia diventando un caso politico: il Deputato di SEL Alessandro Zan chiede un’interrogazione ministeriale.

Complesse restano le dinamiche intorno a questioni tanto sensibili, spesso mai considerate, e dopo il secondo caso grave in solo due mesi a Napoli, ricordiamo il caso di Claudia Matarese, la persona trans quasi uccisa da un probabile serial killer e ricoverata ugualmente in una reparto maschile, inevitabilmente si levano forti le voci di chi si sente inascoltato e mancato nei propri diritti. Una battaglia cominciata da una vittoria remota, quella della legge 164, emanata nel 1984, che fu il primo e più grande successo ottenuto dalle persone trans in Italia: essa consente di cambiare i dati anagrafici a chiunque avesse subito l’operazione di rettifica sessuale, unica condizione possibile per garantirsi un’identità riconosciuta. A distanza di 31 anni però questa legge, che ha migliorato la vita di tante persone, non riesce più a sostenere il peso di un cambiamento naturale, di un’evoluzione che necessita di tutelare integralmente lo sviluppo psicosociale di ogni individuo.

La sua restrittiva interpretazione ha consentito raramente l’accesso alla riattribuzione anagrafica senza un intervento di riattribuzione chirurgica del sesso, e l’estrema complessità delle procedure giuridiche ha dilatato oltre ogni limite accettabile i tempi necessari per il completamento dell’iter in Tribunale.
Sono indispensabili dunque azioni per la corretta interpretazione della L. 164, nell’attesa di una nuova e attesissima legge che invece garantirebbe a tutti l’autodeterminazione non violenta e rispettosa dei diritti della persona, e cioè la possibilità di potersi identificare secondo le proprie necessità senza l’obbligo dell’intervento e secondo procedure semplificate, con ricorso al prefetto e non più al giudice. Una legge che risponderebbe alla necessità crescente e non minore, rispetto a chi decide per un percorso chirurgico consapevole delle persone trans.

Un limbo esistenziale, una stasi politica quella attuale, che condanna a lungaggini burocratiche alcuni e che non comprende, quindi non rispetta l’individualità di chi desidera in parte, o non desidera affatto, cambiare il proprio perimetro corporale, che crea innumerevoli disagi e impedimenti e la possibilità di una sana integrazione. Una negazione che rende l’identità sessuale l’effimera affermazione di un corpo riconosciuto solo se caratterizzato da forme stereotipate, vincolate da un percorso chirurgico e prive di un’espressione intima e libera.

Come non sentire allora “l’evidente delegittimazione” di uno dei diritti fondamentali della persona nella negazione del Sé sociale?