Referendum: vince il ‘NO’. Adesso quali scenari

È dalla primavera del 1993, quando il 18 e 19 aprile gli elettori furono chiamati ad esprimersi su ben 8 referendum abrogativi promossi dal Partito Radicale che son si registrava una così alta affluenza alle urne. In mezzo ben 11 tornate referendarie. Quelle: dell’11 giugno 1995 (con ben 12 quesiti), del 15 giugno 1997 (con 7 quesiti), del 18 aprile 1999 (con un solo quesito), del 21 maggio 2000 (nuovamente con 7 quesiti), del 7 ottobre 2001 (con un solo quesito), del 15 e 16 giugno 2003 (con 2 quesiti), del 12 e 13 giugno 2005 (con 4 quesiti), del 25 e 26 giugno 2006 (con un solo quesito), del 21 e 22 giugno 2009 (con 3 quesiti), del 12 e 13 giugno 2011 (con 4 quesiti) e dello scorso 17 aprile (con un solo quesito).
Qualora ve lo stiate chiedendo, non è superfluo averle volute seppur sommariamente qui ricordare. Il perché è presto detto. Perché questo ci aiuta nella nostra seppur breve analisi del voto di ieri e dei possibili scenari che si aprono. Per prima cosa sgomberiamo il campo da uno spauracchio ripetutamente agitato dal fronte del “Sì” fino a pochi istanti prima del silenzio elettorale: quello che succederà adesso non è imputabile alla scelta compiuta dagli italiani. L’irresponsabilità è di chi per mesi si è messo in trincea e ha avviato questa folle campagna scandita da un’incredibile bombardamento mediatico probabilmente senza precedenti nella storia referendaria italiana. Questa volta infatti, ancor di più delle volte precedenti, in gioco non era soltanto la sorte del dettato costituzionale bensì anche della politica italiana tutta.
Mai come adesso, con un Paese allo sbando in un’Europa alla deriva quello di cui si sentiva e si sente tuttora il bisogno è di coesione nazionale. Di scelte condivise con l’elettorato e non nate dalle logiche di palazzo. Di riforme in favore dei cittadini e non dei banchieri. Di promesse mantenute e non di spot elettorali a raffica, sparati sui social. Visti i numeri con cui il ‘NO’ si è imposto le dimissioni di Matteo Renzi erano inevitabili, e questo non tanto perché in preda a furori guasconeschi lo aveva più volte annunciato – anche se sarebbe più corretto dire “minacciato” dal momento che questa era la sua logica – ma perché si è trattata di una sconfitta politica della sua persona e del terzo governo consecutivo di non eletti.
Con il loro ‘NO’ quasi 20 milioni di italiani hanno non soltanto voluto preservare la Costituzione da una modifica non condivisa, ma hanno voluto anche riaffermare il proprio diritto al volo. Il proprio diritto a scegliere chi è chiamato a rappresentarli in Italia e nel mondo; a cominciare dal palcoscenico europeo. Perché molto probabilmente se ad esempio all’elettorato fosse stato chiesto semplicemente se era d’accordo a ridurre il numero dei Parlamentari senza stravolgere il Senato ed a rendere direttamente eleggibile anche la carica del Presidente della Repubblica, il risultato sarebbe stato tutt’altro. Ed è proprio alla luce di quest’ultima considerazione che riteniamo quale unica soluzione praticabile il ritorno alle urne con lo scioglimento anticipato delle Camere dopo l’approvazione in tempi brevi, due o tre mesi al massimo, di una nuova riforma elettorale.
Quella del Presidente Mattarella non sarebbe quindi una scelta coraggiosa, ma semplicemente il voler porre rimedio – nel pieno rispetto della volontà popolare – al proliferare di governi tecnici nati sotto l’egida del suo predecessore. Pertanto questa volta lanciamolo noi un hashtag #chealtrenonseguailquattro.