È conosciuta in tutto il mondo per le sue bellezze naturali, per il buon cibo, per la cordialità e l’allegria dei suoi abitanti e per il suo inestimabile patrimonio storico, artistico e archeologico, eppure, Napoli non è sempre stata così. C’è stato un tempo in cui fame, carestia, malattia e morte regnavano incontrastate tra le vie di questa città, gettando nello sconforto e nella disperazione più pronfonda i suoi abitanti e conducendoli, fin troppo spesso, ad un misero e triste destino. A rammentarci quel macabro periodo due colossali interventi architettonici che ancora oggi, seppur abbandonati a se stessi, vivono e fanno rivivere il ricordo di chi questa meravigliosa Napoli solare, allegra e piena di energia non ha mai potuto viverla.

Era la seconda metà del 700 quando re Carlo III di Borbone mise a punto un ambizioso programma di rinnovamento edilizio della città partenopea. In questo contesto fu chiamato a Napoli il fiorentino Ferdinando Fuga che diverrà l’architetto di una delle opere più imponenti non solo di Napoli ma dell’intera Europa settecentesca, il Real Albergo dei Poveri conosciuto anche come Palazzo Fuga, dal nome del suo ideatore, o come Serraglio. Il progetto ha inizio col real decreto del 25 Febbraio del 1751 che segna il punto di partenza di una delle più importanti esperienze assistenziali europee ma, sfortunatamente, il Real Albergo dei poveri non fu mai completato e dei ben cinque cortili previsti ne furono realizzati solo tre. Ciò nonostante l’edificio, chiamato a rispondere alle esigenze di una città in continua espansione, si presenta di dimensioni mastodontiche con una facciata di 360 metri e con 430 stanze su quattro livelli atte ad ospitare un gran numero di poveri, mendicanti e vagabondi ma anche sordomuti e fanciulle abbandonate. Era ormai il 1764 quando esso, sebbene inconcluso, aprì le sue porte alle orde di poveri che, giunti a Napoli dalle campagne e sfamati con grano di scarsa qualità, si erano ammalate di febbri putride.
Oggi sappiamo che le febbri putride erano causate da un problema di malnutrizione, dovuto a una carenza alimentare prolungata nel tempo e al mancato assorbimento di vitamine ma a quel tempo si pensò che il problema fossero i poveri che, insieme ai contadini, furono accusati dall’intera popolazione. Fu poi il turno dei mercanti che, nonostante la grave carestia del tempo, furono costretti a gettare in mare grosse quantità di grano ritenuto infetto. Nonostante le commissioni di periti, create ad hoc per l’analisi del grano, l’epidemia continuava inesorabile a mietere centinaia di vittime al giorno. Al Real Albergo dei poveri, grazie all’instancabile lavoro di Padre Gregorio Maria Rocco, un gran numero di mendicanti malati veniva assistito ogni giorno ma nel momento in cui il governo della città rivendicò la gestione di questa difficile situazione, una gran parte dei mendicanti quì ospitata fu spostata e al posto dei 500 malati che la struttura poteva ospitare furono introdotti circa 1700 incurabili e infermi. Nella struttura, incapace di accogliere tante persone, vennero così a trovarsi ammassati l’uno all’altro vivi e morti e ciò non faceva che favorire la diffusione dell’epidemia.

Nel 1762, appena due anni prima che l’epidemia irrompesse a Napoli, l’architetto Ferdinando Fuga progettò ai piedi della collina del Poggio Reale, all’epoca area paludosa, il Cimitero di Santa Maria del Popolo meglio noto come Cimitero delle 366 fosse. Il cimitero, che per orientamento e dimensioni si ricollega al Real Albergo dei Poveri, fu realizzato per servire non solo i poveri ma anche ospedali e carceri. Geniale l’intuizione di Fuga che, costruendo il cimitero all’esterno delle mura di Napoli, anticipò di oltre quattro decenni l’editto napoleonico di Saint Cloud che voleva la costruzione degli impianti cimiteriali all’esterno delle mura cittadine, in luoghi ampi e arieggiati. Nel 1764, a soli due anni dall’inizo dei lavori, il Cimitero delle 366 fosse era concluso per oltre la metà e potette così rappresentare la soluzione alla tragica situazione di quell’anno.
Il cimitero presenta un pianta quadrata, interamente recintata e lastricata di conci di pietra lavica, all’interno della quale trovano posto 366 botole di 80 centimetri per lato atte ad ospitare le salme dei poveri, morti nel giorno dell’anno corrispondente al numero riportato sulla botola stessa. Un sistema innovativo quello progettato dall’architetto Fuga che consentiva la sepoltura dei cadaveri seguendo un rigido ordine cronologico.
La procedura prevedeva che ogni giorno si aprisse la fossa contrassegnata con il numero ad esso corrispondente e che fosse richiusa la sera. Le botole, poste in ordine bustrofedico, sono disposte in file di 19 per 19 e nascondono alla vista stanze di 4,20 metri per lato poste a 8 metri di profondità. Una gran brutalità nel gettare i cadaveri nelle fosse ha regnato fino al 1875 quando una ricca baronessa inglese, in seguito alla morte della figlia per colera, donò un argano al cimitero affinchè le salme potessero essere accompagnate più delicatamente nel loro ultimo ‘viaggio’.
Abbandonate a se stesse, due grandi testimonianze di un passato sofferto giacciono lì, dove Fuga le progettò, e con la loro imponenza cercano di attirare l’attenzione di chi giorno dopo giorno gli passa accanto ignorando le tragedie sociali e personali che in esse si consumarono.