La ritenzione d’uovo è una condizione che si riscontra con relativa frequenza in numerose specie di uccelli allevati in cattività e che riconosce diverse possibili cause. Se non si interviene tempestivamente l’animale rischia la vita.
Si deve sospettare la ritenzione d’uovo nel caso in cui la femmina, soprattutto se in fase riproduttiva, presenti una persistente tumefazione della regione pericloacale, uno stato di affaticamento caratterizzato, secondo diverse variabili, da affanno, difficoltà nei movimenti o stazionamento costante nel nido o sul fondo dell’alloggio.
Laddove la deposizione sia già iniziata, un aumento dell’intervallo tra la deposizione di un uovo e l’altro (in media 24-48 ore) è fortemente indicativo di problemi distocici.

E’ consigliabile, se si sospetta un problema di ritenzione, non manipolare eccessivamente la femmina, pena il rischio di rompere l’uovo con conseguenti possibili lacerazioni dell’ovidutto o della mucosa cloacale con il rischio di versamento del contenuto dell’uovo in cavità celomatica. Tale evento comporta fenomeni infiammatori e favorisce la proliferazione batterica. Se impossibilitati a raggiungere il veterinario nell’immediato è utile porre il soggetto in camera calda e lubrificare con un po’ di olio la cloaca. Altrettanto valida è l’esposizione della femmina ai vapori prodotti da una pentola con acqua in ebollizione che umidificando i tessuti ne consente il rilassamento facilitando l’espulsione dell’uovo. Se entro 1-3 ore la deposizione non si verificasse, le probabilità di successo saranno piuttosto basse.
E’ consigliabile in ogni caso contattare quanto prima il medico veterinario competente in patologia aviare per effettuare la diagnosi e la terapia più appropriata.

L’esame clinico, ecografico e quello radiografico consentono di valutare con maggiore accuratezza le cause della distocia (uovo malposizionato, troppo grande, poco calcificato, malformato…) e di selezionare l’intervento opportuno. Secondo la gravità della condizione è possibile infatti effettuare trattamenti farmacologici (prostaglandine), interventi non cruenti in anestesia che vanno dallo svuotamento dell’uovo e successiva espulsione forzata al vero e proprio intervento chirurgico con incisione dell’ovidutto.
Il post-trattamento richiede sempre un periodo di riposo riproduttivo del soggetto e spesso una correzione della dieta. Animali che, nonostante tutte le opportune misure preventive, presentino episodi ricorrenti non dovrebbero più essere messi in riproduzione.
Le femmine pet, ossia gli esemplari detenuti singolarmente a scopo di compagnia, sono spesso interessate da fenomeni di ovodeposizione cronica, non potendo svolgere la normale attività riproduttiva, che aumentano il rischio di distocia. In questo caso è opportuno ridurre al minimo gli stimoli alla riproduzione evitando di somministrare cibo tiepido, che mima il rigurgito del compagno, rimuovendo oggetti che possano essere assimilati per struttura ad un nido, limitando il contatto fisico costituito da grattini e carezze preferibilmente alla sola testa. Nei soggetti prepuberi delle specie predisposte (tra cui le calopsiti) è possibile a scopo preventivo l’asportazione per via endoscopica dell’ovidutto; negli adulti l’intervento presenta rischi superiori e non può essere effettuato per via endoscopica a causa della maggiore vascolarizzazione e dimensione dell’organo. Sono descritti, tra le soluzioni farmacologiche, l’utilizzo di impianti di deslorelina e la somministrazione di gonadotropina corionica umana. Tali terapie hanno efficacia variabile secondo la specie e mediamente presentano comunque una breve durata (2-3 mesi). La gestione ambientale ed etologica appropriata dell’animale resta al momento tra le più efficaci misure per contrastare l’ovodeposizione cronica.