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La leggenda del fantasma di porcellana di Capodimonte e l’amore logorante per l’ideale

La leggenda di Capodimonte è un antico racconto partenopeo intriso di significati simbolici. È un’allegoria, quasi un’esortazione: questa leggenda mette in guardia dall’amore totalizzante per gli ideali che, una volta toccati con mano, anche a costo della vita, vanno in pezzi mostrando la ragione profonda del nostro amore nei loro confronti.

Tanto più sono lontani e impalpabili, tanto più sono facili da amare perché irraggiungibili, perfetti nella loro sfera d’irrealtà, nel loro essere altro rispetto al mondo in carne ed ossa.

La leggenda – riportata nella raccolta Leggende Napoletane di Matilde Serao – racconta di un giovane che, malato d’apatia, trovava sollievo dal nulla incombente vagando per il bosco di Capodimonte. Errava nei viali solo, pallido e triste, alla ricerca di qualcosa che potesse soddisfare la sua voglia d’amare. Perché egli amava, sì, ma nulla che facesse parte della vita: “amava in un punto indefinito, in un paese sconosciuto, con un amore sconfinato e ignoto, una creatura misteriosa che egli aveva creata“.

Mosso da quest’amore che non aveva, però, alcun oggetto se non il concetto che egli aveva creato – perfetto, irraggiungibile, ideale – il ragazzo vagava e vagava; trascinava la sua vita un passo dopo l’altro alla ricerca della pace.

Un mattino d’inverno, però, egli vide una forma indefinita, sfuggente, in uno dei viali del bosco e la rincorse. Dopo pochi istanti la forma era già scomparsa nel nulla. Più egli desiderava vedere il fantasma che accompagnava il suo vagare, più diventò facile per lui evocarlo.

E così, quest’ombra, questo fantasma dalla forma indefinita, col passare del tempo assunse le sembianze di una ragazza vestita di bianco. Ogni giorno, la creatura divina appariva meno lontana: gli sorrideva, agitava il capo e lo salutava prima di scomparire.

Il ragazzo, le prime volte, non osò rivolgerle la parola: tremava, la voce ogni volta gli moriva nella gola prima che potesse proferire qualsiasi parola. Appena egli le si avvicinava, lei però fuggiva, fermandosi lungo i viali del bosco solo per qualche istante, per osservare un fiore senza accarezzarlo, radendo appena la terra.

Ogni giorno il fantasma si dirigeva verso il castello, lo salutava poi con un cenno del capo e spariva nel cupo androne.

Disperato e folle d’amore, lui cominciò poi a supplicarla: “No! Non allontanarti! Resta, resta, per pietà di chi t’ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente“. Il ragazzo pianse per giorni e giorni, fino ad offrirle la sua vita in cambio di una parola. Le chiese: “M’ami?“.

In un sussurro, lei rispose: ““. Logorato dall’amore per questa donna impalpabile, le corse incontro e l’abbracciò in un impeto di passione. Tra le braccia, però, strinse nient’altro che un cumulo di cocci di porcellana: lei, con un flebile scricchiolio, andò in frantumi. Allora, dopo tanto vagare e logorarsi per lei, il ragazzo perse i sensi accanto al suo idolo infranto.

Secondo la leggenda, molti sfilarono accanto a lui per disonorarlo: l’Aurora maledisse tutte le albe della sua vita, ventiquattro fanciulle, che sono le Ore, gli lanciarono rose avvelenate. Gli Amorini conficcarono nel suo cuore dardi acuti e i sette re di Francia, galoppando, lo colpirono con la spada.

Infine, i Titani lo seppellirono sotto un enorme sepolcro di massi per il peccato di cui si era macchiato; per aver rinunciato alla vita per la perfezione di un’ideale che, nel suo abbraccio, è andato in pezzi in un cumulo di cocci di porcellana.

 

 

 

 

Anna Borriello
Anna Borriello
Scrivo per confrontarmi col mondo senza ipocrisie e per riflettere sul rapporto irriducibile che ci lega ad esso.