Jep Gambardella, drink alla mano e sguardo posato sulla variegata fauna umana, impegnata nel ‘trenino‘ di rito, con adeguato sottofondo di chiassosa musica, quella più in voga al momento, afferma di poter riuscire a realizzare quella che era la massima ambizione di Flaubert, ovvero scrivere un libro sul nulla. Sorrentino ci riesce con il suo film.
Da Toni Pisapia, a Titta Di Girolamo, a Giulio Andreotti, fino a Jep Gambardella: la maschera poliedrica di Toni Servillo dà vita all’ennesimo personaggio dell’epopea umana rappresentata nei film di Sorrentino, non limitandosi ad interpretarlo seguendo le direttive di regia, ma animandolo.
Servillo è Jep, scrittore napoletano di belle speranze trapiantato a Roma, e ora disilluso autore di un unico romanzo giovanile che egli stesso considera troppo ambizioso, e ci mostra attraverso i suoi occhi un lungo viaggio mentale, ben due ore e mezza, attraverso il quale prende consapevolezza di cosa sia la grande bellezza a lungo ricercata. Null’altro che sparuti ed incostanti sprazzi da dissotterrare e riscoprire al di sotto del chiacchiericcio e dal rumore del vivere quotidiano. Una lente di ingrandimento sullo zoo umano più degradato e miserabile al quale Jep assiste come spettatore allo stesso tempo coinvolto e distaccato, poiché, come egli è solito affermare “io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire!”. Atmosfere oniriche, paesaggi dall’aura epica, la fotografia impeccabile di Bigazzi, echi felliniani. Una carrellata di maschere e tipologie umane diverse, al limite del grottesco e del parodistico: da un’irriconoscibile Serena Grandi che scimmiotta se stessa, passando per l’attricetta cocainomane; e l’autore teatrale troppo ingenuo per sopravvivere nella giungla del mondo dello spettacolo; fino alla suora che rievoca Madre Teresa, tutte figure esasperate come alcuni dettagli, volutamente al di sopra delle righe, impiegati per rendere appieno la mostruosità, che come una patina opaca, cela pesantemente, ostruendone la visuale, la lieve bellezza dell’esistenza. La camera indugia su volti deformi, su tic e manie di una certa società malata, ovvero l’alta società mondana della capitale, sulle raffinatezze del vestire e dell’eloquio, altro elemento volutamente ‘gagà’ di Jep, su certe brutture e su dettagli dall’impercettibile bellezza, dispersi qua e là. La grande bellezza è nel complesso un film frammentario, scomposto, che non da spazio allo svolgimento compiuto di una trama lineare, ma neppure contorta.
La trama semplicemente è assente, sono piuttosto le immagini di Sorrentino e la forza recitativa di Servillo a mettere in scena elementi aleatori: sentimenti, angosce, saggezza, superficialità, ricerca di un senso. Sorrentino ci regala una raccolta di frasi memorabili, ora brillanti, ora dissacranti, miste a perle di saggezza: “la povertà non va raccontata, va vissuta”; “Le cose sono troppo complicate perché un singolo individuo possa comprenderle!”. E ci mostra con freddezza e brutalità la superficialità che campeggia nell’animo umano, mettendola a nudo e schernendola attraverso il cinismo e la disillusione di Jep. Scene di forte impatto come lo stormo di fenicotteri che riposano prima di migrare altrove, oppure la scalata in ginocchio della ‘santa’ Suor Maria, o ancora la descrizione della preparazione alla ‘messa in scena’ del funerale, perché “Ad un funerale, non bisogna mai dimenticarlo,si va in scena!”. Un Verdone diverso dal solito ma convincente al punto giusto; una Ferilli a suo agio nel personaggio che incarna una certa volgarità e semplicità innocue; un Buccirosso che non va oltre la macchietta, ma serve a far da spalla ad alcune battute di sottile ironia di Servillo. Il tutto reso attraverso quell’estetica del deforme che ha fatto scuola tra i giovani e talentuosi cineasti italiani del nuovo millennio, da Sorrentino a Garrone, e che riesce a consegnare ai posteri “sparuti sprazzi di bellezza”.