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martedì, 30 Maggio 2023

Famiglia capovolta: Ferrara per ripercorrere l’odio

Il delitto del Ferrarese porta alla memoria vecchi casi di violenza familiare. Dai testi antichi a Erika e Omar, tutti con un unico filone, l'odio.

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L’orrore che supera la follia, la violenza che va oltre ogni umana comprensione. Un altro caso di strage familiare sale alla ribalta delle cronache, alimenta salotti, tiene banco sui Social, inondati in questi giorni da messaggi che inneggiano alla giustizia e alla moralità. E naturalmente nutre i soliti seguitissimi TalkShow con ospiti “illustri” che si improvvisano ad un tratto magistrati dalla sentenza facile, attenti e scrupolosi nel trattare l’accaduto con un misto di sentimenti che va dalla rabbia alla sgomento, dal ribrezzo allo stupore. Come se ogni volta l’ennesimo delitto familiare ci prendesse di sorpresa, come se non facesse parte della nostra cultura, come se non fosse mai successo prima.

Otello & Desdemona in un dipinto di Alexandre-Marie Colin

Eppure la storia di Riccardo Vincelli, 17 anni, che a Pietralangorino (Ferrara) insieme al suo amico e complice Manuel Sartori, uccide entrambi i genitori a colpi d’ascia, non è affatto nuova. E’ vecchia come il mondo. Anzi, “antica” almeno quanto la Bibbia. E non è un modo di dire. Già scomodando la letteratura infatti, nei testi sacri e non, si trovano spesso casi di omicidi in famiglia: tutti sanno che proprio nel Vecchio Testamento, Caino, primogenito di Adamo ed Eva, uccise il fratello Abele spinto da incontrollabili moti d’invidia. E siamo ancora nel lontano 400 a.C. quando Eschilo scrive L’Orestea, solenne tragedia greca in cui Clitennestra, con l’aiuto dell’amante, fa uccidere il marito Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia, per vendicarsi del sacrificio della figlia. In molti poi, leggendo Shakespeare, avranno seguito con trepidazione la storia di Otello che ammazza la moglie Desdemona in preda alla gelosia, o quella di Amleto che uccide il patrigno avvelenandolo.

Tornando alla realtà e ai giorni nostri, è ancora nella memoria di tutti l’ormai famoso “delitto di Novi Ligure” del febbraio 2001, quando Erika de Nardo (all’epoca sedicenne) con la complicità del suo fidanzato Mauro “Omar” Favaro, ammazzò i genitori e il fratellino di appena 11 anni. E ancora, la storia di Pietro Maso, che nell’Aprile del ’91, all’età di 19 anni uccise i genitori con l’aiuto di tre amici per intascare subito la sua parte di eredità. Nessuno ha nemmeno dimenticato la vicenda di Elia del Grande, tristemente noto per la “strage dei fornai“, che in un piccolo paese del Veneto, nel ’98 eliminò padre, madre e fratello di ritorno dalla panetteria di famiglia, per poi tentare di fuggire con una valigetta piena di banconote verso il Sud-America insieme alla moglie Dominicana.

Salvatore Vincelli & Nunzia Di Gianni, uccisi dal figlio Riccardo e dal suo amico Manuel Sartori

La dinamica in questi casi è spesso simile: l’omicidio è volontario, architettato, pianificato. A volte anche nei più piccoli e macabri particolari. Non è quasi mai frutto di un impulso, né tantomeno la conseguenza di una lite finita male (che nel caso delle morti familiari ha un’incidenza molto alta), e non viene quasi mai eseguito con un’arma da fuoco ma con una da taglio, con la tendenza spesso ad infierire più volte sulla vittima. Analizzando le modalità e la spietatezza con cui i fatti si svolgono, e considerando che in Italia gli omicidi in famiglia rappresentano quasi il 30% sulla totalità dei casi, resta davvero ben poco da meravigliarsi.

Sarebbe piuttosto da chiedersi come sia possibile lo sviluppo di una casistica così elevata, proprio in un ambiente, quello familiare, in cui ognuno di noi dovrebbe sentirsi protetto e al sicuro e dove certo non ci aspettiamo che si verifichino orrori di queste proporzioni. Eppure proprio la famiglia (intesa come nucleo domestico) rappresenta una medaglia con due facce. E’ si il “luogo” in cui cresciamo moralmente e socialmente, il contesto in cui si sviluppano le relazioni interpersonali e i primi intensi legami affettivi, ma è anche sede e causa di forti e ripetute conflittualità, che sfociano purtroppo spesso in tragici episodi come questi. Se si considera poi che l’elemento determinante, quando si compie un delitto, è la “vicinanza” (nel senso fisico del termine), allora cominciamo a capire che è proprio la “famiglia” il gruppo di persone che incontriamo più spesso, quello con cui stiamo maggiormente a contatto: la probabilità che venga ucciso un componente della famiglia è più alta anche solo perchè interagiamo più frequentemente con lui che con altre persone.

Erika & Omar

William Goode, scrittore e criminologo americano, analizzando nel 1969 alcuni casi di delitti familiari, tentò di stabilirne le cause psichiche scatenanti, soffermandosi sul perché di tanta efferatezza, di tanta rabbia, proprio nei confronti di un consanguineo: “Possiamo diventare violenti verso le persone intime, perché per noi rivestono un ruolo speciale: pochi altri sono capaci di farci arrabbiare così tanto. Per noi, essi sono una fonte non solo di piacere e sicurezza, ma anche purtroppo di frustrazione e sofferenza. Sul piano emotivo quello che essi fanno, ci riguarda molto più direttamente rispetto a quanto fa la maggior parte degli estranei”

Questo ovviamente non basta a spiegare, nè tantomeno a giustificare il perchè di tanta efferatezza, di tanta meticolosa premeditazione, proprio nei confronti di chi è più caro e vicino: i due amici di Ferrara progettavano da tempo l’omicidio, e ad eseguirlo è stato l’amico del figlio ma con sue precise e minuziose istruzioni. Quando Erika uccide la madre, rea di averla rimproverata per le cattive compagnie e i brutti voti a scuola, aveva nascosto Omar – suo fidanzato e complice – in bagno, per poi liberarlo al momento della furia omicida. Anche Pietro Maso non fu da meno in quanto a premeditazione: basta pensare che quando uccise i genitori era già al suo quarto tentativo.

Pietro Maso, durante un’udienza del suo processo

E’ solo violenza, rabbia repressa, insostenibile tensione familiare, che tragicamente sfocia in omicidio, o c’è dell’altro? Da dove viene tutto questo odio? Dove nasce? Come si forma? Ce la prendiamo spesso con i “tempi moderni” che ci hanno resi schiavi di una società sempre più veloce, pressante, stressante. Che ci spinge al techno-isolamento, alla mancanza di espressione, di comunicazione e quindi di realizzazione. Che ci obbliga a seguire logiche e modelli di consumo sempre più eccessivi, sempre più devianti. Forse è così, forse è ciò che ci circonda, ciò con cui veniamo quotidianamente a contatto, che fa realmente la differenza. O forse è semplicemente più facile, più consolatorio pensarla così. Forse è meglio credere che oltre a questi fattori ci sia una forte componente psichica pregressa. Una “macchia” all’interno, nel profondo della corteccia, che spinge incontrollabilmente a tanta follia, tanta precisione nel pianificare, tanta violenza nell’agire. Forse è meglio pensare che ci sia una logica meticolosa, ragionata, ma per fortuna non sempre infallibile. Anzi, talvolta ingenua, banale, nella fragilità del suo delirio. Una logica che a volte non prevede nemmeno il pentimento, se è vero che spesso, questo tipo di assassini riesce a raccontare l’accaduto nei minimi dettagli, elencando tutti gli spostamenti, i movimenti, il perchè, il dove e il quando, con assoluta lucidità e perfezione. Quasi fosse l’elenco degli ingredienti di una ricetta di cucina, come se fosse un’esperienza fuori da se stessi. Come se l’avessero solo visto, e non fatto.

Elia del Grande

Oltre al problema delle cause, del movente, e dei fattori che portano a tutto questo, sarebbe anche da interrogarsi sulla “fine” alla quale vengono destinati tali soggetti. Fine di cui la comunità si disinteressa, perché secondo tutti o quasi, il “mostro” va chiuso in un buco e poi…  Via la chiave. Ma dopo la garanzia e la certezza della pena, la questione successiva è in che modo e con quale rispetto della dignità essa viene eseguita. Chi assicura a questo tipo di detenuti il giusto percorso da affrontare per riuscire in futuro ad accettarsi, a perdonarsi? Non sarà solo un altro caso se addirittura il 40% dei suicidi in carcere riguarda proprio soggetti di questo tipo, troppo spesso affidati alle cure di psicofarmaci devastanti e abbandonati in celle sovraffollate, e che ripetutamente finiscono per sfogare rabbia, frustrazioni e rimorsi proprio su sé stessi. O che magari, anche in paesi occidentali – solo sulla carta – vengono ancora condannati alla pena di morte, alla vecchia legge del Taglione, senza che si riesca ancora a trovare una soluzione alternativa, più umana, meno spietata. Magari il sistema giudiziario potrebbe occuparsi anche di questo, del recupero di queste persone, piuttosto che limitarsi ad accompagnarle mano nella mano lungo il corridoio che porta al patibolo. Perchè come Qualcuno scrisse in una canzone: “Tieni giù le mani da Caino, sangue chiama sangue tu rispondi al suo richiamo, predichi giustizia e poi razzoli nel crimine, arbitro venduto che dispone della vita di un suo simile”

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