Save the Children è un’organizzazione non governativa che dal 1919 si occupa di offrire aiuto e assistenza ai bambini di tutto il mondo. Secondo le sue stime dall’inizio dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas sono 2.900 i bambini rimasti feriti, 373.000 quelli che hanno bisogno di un aiuto immediato e 408 quelli che hanno perso la vita. I bambini palestinesi sono ormai abituati a convivere con la paura di essere colpiti dalle bombe: hanno lasciato la scuola e sono costretti a vivere in condizioni igienico sanitarie insostenibili. Grazie all’impegno di Save the Children è stata possibile la distribuzione di 16.000 litri acqua potabile, teli, coperte, medicine salvavita e kit di primo soccorso. Ancora molto resta da fare per restituire ai bimbi palestinesi una parvenza di normalità.
Con Luca di Lallo, dialogatore per Save the Children, proviamo a vedere più nel dettaglio cosa l’Ong sta cercano di realizzare a Gaza e in che modo sostenere i suoi progetti.
Quali sono i progetti che Save the Children sta portando avanti per i bambini di Gaza?
«Save the Children ha lanciato una campagna che si chiama “Everyone”, il cui scopo è ridurre di due terzi la mortalità infantile entro il 2018. Una speranza, o meglio ancora, un grande obiettivo, ambizioso, che vogliamo raggiungere a tutti i costi. È per questo motivo che siamo in giro per l’Italia: per trovare nuovi sostenitori che ci permettano di continuare a lavorare alla nostra causa. La nostra è un’organizzazione apolitica, che lavora senza il finanziamento degli Stati, ovunque ci sia un’emergenza, molto spesso in situazioni di conflitto. Attualmente una delle emergenze più gravi, a cui Save the Children cerca di rispondere, è quella in corso a Gaza. Quello che facciamo a Gaza è principalmente donare ai bambini palestinesi delle condizioni di vita che si avvicinino il più possibile alla normalità, permettendo loro innanzitutto di ritornare sui banchi di scuola. L’istruzione è fondamentale in determinati contesti, come nel caso di Gaza, perché un bambino istruito per noi vuol dire un bambino protetto, che viene strappato alla guerra e che, grazie proprio alla scuola, può conoscere anche quelli che sono i suoi diritti. La scuola infatti significa protezione sia dal punto di vista materiale che logistico, come struttura scolastica, sia nel senso della cultura personale. Save the Children è una delle più grandi organizzazioni non governative esistenti al mondo, e il suo impegno non si limita solamente alla costruzione di scuole, ma è finalizzato anche alla realizzazione di progetti che noi definiamo di “formazione”, quei progetti cioè pensati per formare le persone locali, perché è solo in questo modo che ci può essere sviluppo, e con lo sviluppo una prospettiva di vita migliore».
In che modo funzionano le adozioni a distanza di Save the Children?
Una delle cose che più mi piace del mio lavoro è riuscire a trovare genitori adottivi che vogliano sostenere a distanza i bambini meno fortunati. Quando hai tra le mani una foto di un bimbo, senti immediatamente una forte empatia. Se si adotta un bambino a distanza, non si sostiene soltanto lui, ma anche la sua famiglia, e implicitamente la sua comunità. Chi sceglie di adottare un bambino seguirà da vicino tutta la sua vita. Tra i due nasce e si sviluppa sempre un rapporto molto particolare. A noi piace dire che sono due vite che cambiano: una è quella del bambino e l’altra è quella di chi lo aiuta nel suo percorso di crescita. Genitore adottivo e bambino si possono scrivere, tenersi in contatto, e anche conoscersi personalmente.
Come si può sostenere Save the Children?
«Noi cerchiamo sostenitori per le nostre campagne. Con un piccolo aiuto regolare, mensile o annuale, possiamo avere la sicurezza di stabilire un fondo per le emergenze. Questo ci permette di pianificare i nostri progetti e di aiutare nel modo migliore quanti più bambini possibile».
Cosa ti ha spinto a fare questo lavoro?
«Mi sento fortemente motivato, quando si tratta di bambini c’è sempre qualcosa che ti colpisce sul personale, ti senti coinvolto in prima persona. Se si tratta di fare qualcosa per un bambino, sono il primo a dire di sì, e questo cerco di trasmetterlo anche agli altri quando lavoro».