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American Fiction, il primo film di Cord Jefferson

Quando il protagonista dice: “Sai, non credo proprio nella razza”, il suo agente gli risponde “il problema è che ci credono tutti gli altri”. Questo è lo scambio di battute più emblematico di American Fiction, il primo film a essere diretto da Cord Jefferson che è stato molto apprezzando dalla critica ricevendo due candidature ai Golden Globe di quest’anno e ben 5 agli Oscar 2024. Di fatto con poche speranze come miglior film contro il colosso Oppenheimer, American Fiction è riuscito ad aggiudicarsi l’Oscar come miglior sceneggiatura non originale.  Oltre che della regia, Cord Jefferson si è occupato anche della sceneggiatura, avendo come esperienza alle spalle la scrittura di sceneggiature per diverse serie tv come The Good Place, Watchmen e Station Eleven. Il film è l’adattamento cinematografico di Cancellazione (il cui titolo originale è Erasure), libro scritto dal professore e romanziere statunitense Percival Everett nel 2001. Distribuito da Amazon Prime Video, American Fiction è stato prodotto dallo stesso Jefferson, da Everett e da Rian Johnson, regista tra l’altro di Glass Onion- Knives Out. Nel cast compare il caratterista Jeffrey Wright nei panni del protagonista Thelonious ‘Monk’ Ellison; oltre lui, spiccano anche Tracee Ellis Ross, Erika Alexander, Leslie Uggams, Sterling K. Brown, John Ortiz, Issa Rae e Adam Brody.

La trama

Thelonious Ellison, soprannominato da tutti “Monk” come il grande Thelonious jazzista, è un professore e uno scrittore afroamericano di scarso successo e che per questo motivo sta vivendo un momento di crisi e frustrazione professionale. Monk è profondamente inorridito dalla tendenza dei suoi colleghi di colore a indulgere nei peggiori stereotipi black, pur di vendere, accontentando così il senso di colpa di un pubblico prettamente bianco. Diviso tra le difficoltà economiche e quelle familiari, Monk decide un po’ per gioco e un po’ come provocazione di scrivere sotto pseudonimo un romanzo noir che incarni tutti gli stereotipi black, dalle lotte tra gang ai conflitti con la polizia. Questo libro inizialmente intitolato “My Pafology” e poi “Fuck” (a sottolineare la carica polemica e dispregiativa), ricco di cliché offensivi, viene pubblicato per davvero e diventa presto un bestseller. Monk è sempre più indignato, arrabbiato e scosso da dubbi dal momento che mette da parte i suoi valori e si ritrova anzi a rafforzare con il suo libro un tipo di cultura che è comunque razzista. Questo dissidio interiore tra le necessità e la morale culminerà quando il suo libro verrà candidato ai Literary Award e Monk fa parte della giuria.

L’analisi

La carica satirica è chiara fin da subito, lo dimostrano tutte le battute spietate disseminate nel film che lasciano un senso d’amaro in bocca perché in qualche modo mettono in luce dei dati di fatto. Persino lo pseudonimo che Monk sceglie, Stagg R. Leigh, è indice della chiave satirica del tutto: Stagger Lee o Stag-o-lee è infatti una leggenda metropolitana, un magnaccia e assassino di colore le cui sanguinose gesta si tramandano da generazioni attraverso una canzone folk. Monk si cuce addosso tutti gli stereotipi sugli afroamericani, vestendo i panni della caricatura pur di vendere il suo libro, ma nessuno se ne accorge; soprattutto gli editori bianchi e agiati, quelli che invece gli rifiutano l’ultimo romanzo “impegnato” perché “poco nero”, gli stessi che si commuovono leggendo “Fuck” senza rendersi conto che è una presa in giro. “I bianchi pensano di volere la verità, ma non è così. Cercano solo di essere assolti” sentenzia l’agente di Monk in uno dei diversi passaggi memorabili del film.

La satira, tuttavia, è solo una delle facce della medaglia: l’altra è la parte tragica che American Fiction accarezza di continuo nel corso del film senza risultare mai banale. Monk si ritrova ad affrontare una famiglia profondamente disfunzionale e divisa: il padre muore suicida, il fratello non sentendosi accettato in quanto gay fa uso di cocaina, la madre è malata di Alzheimer e la luce della sorella, una figura positiva e solare si spegne in un attacco cardiaco. Lo stesso Monk non è un personaggio pienamente positivo, quasi snob nel condannare i colleghi e a tratti iracondo. Così si svolge la tragedia umana in American Fiction dove serpeggia un profondo senso di solitudine. A calmare questo dolore è la figura materna e calorosa di Lorraine, governante della famiglia che in una scena accoglie in un abbraccio il fratello di Monk, cercando di dargli quel calore che la famiglia non è riuscito a dargli.

Di grande interesse sono le scelte narrative adottate dal film, soprattutto quando, mentre lo scrittore scrive, i suoi personaggi gli si manifestano davanti e addirittura si confrontano con lui. Il finale mette in luce ancora di più la vena metanarrativa dove Monk propone al produttore Wiley i possibili finali del film.

Quindi cosa vuole dirci American Fiction? Ci comunica l’urgenza di riflettere sulle storture del presente dove una transizione da un razzismo atavico a una radicale espiazione di facciata dimostra quanto l’impegno non sia sentito e i passi siano stati minimi. Ci giunge però una verità nello scambio di battute tra Monk e una sua collega scrittrice: quando il protagonista le rinfaccia di rafforzare gli stereotipi, lei gli dice che il suo libro è frutto di interviste e di una ricerca. Quella realtà sociale che lo stereotipo ingigantisce esiste ancora: è giusto dunque tacerla totalmente? Questo è il dubbio che in ultima analisi ci lascia American Fiction.

Immagine: credit Wikipedia