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Raffaele Maddaluno e il dissacrante spirito dell’arte

Raffaele Maddaluno è nato nel 1962 a Napoli, dove vive. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove dal 1991 è titolare della cattedra di pittura. Ha un lungo curriculum espositivo, dai primi anni ’80 con personali e collettive fino ad arrivare oggi  all’ultima esposizione al Palazzo delle arti di Napoli con gli ” Inviati”.

Ironia e dolcezza, il docente e pittore Maddaluno accoglie in modo familiare, rompendo subito gli schemi dell’asetticità deontologica. Profondità d’animo ed empatia sono gli aspetti che più emergono già dai primi attimi in cui si ha la fortuna di incontrare il suo percorso umano ancor prima di quello artistico. Punto di riferimento per tutti gli allievi del suo corso e non. Tanto è fluida la comunicazione che si fa difficoltà a discernere il momento del reale inizio dell’intervista.

-Qual è il suo rapporto con gli studenti?

<< Con i miei studenti instauro sin da subito un rapporto viscerale che va al di là dell’insegnamento. Ogni volta che vengo in Accademia per me è come se fosse il primo giorno; c’è emozione e mistero e io dico sempre che dopo il mistero, esiste l’arte. Così come è un mistero il perché facciamo arte. Non lo sappiamo. E non sappiamo nemmeno oggettivamente perché un quadro vende e un altro no, e non sappiamo nemmeno perché io e Lei ora stiamo facendo questa intervista è un mistero. Tutto questo fa parte di un circuito magico. Per fare l’artista ci vuole dedizione, sacrificio, l’artista è ammantato sempre da mistero e magia >>

-Quanto è cambiato il modo di insegnare le discipline artistiche?

<< Negli anni ’80 era tutto diverso. L’Accademia era ancora un luogo in cui esisteva una profonda identificazione tra ruolo dello studente che si sentiva artista e il maestro che non era ancora il docente. Oggi i ragazzi si sentono stretti ai corsi, allo studio per conseguire l’esame alla fine. Prima c’era più libertà, si viveva a stretto contatto tutti i giorni e si lavorava strenuamente con passione.>>

Nel 2002 con l’esposizione ” Il vangelo secondo Raffaele ” Lei ha messo in scena ” Tris di pani e Tris di pesci” in un viaggio artistico volto intorno al concetto di miracolo e ritualità, di cui la cultura partenopea fonda le proprie radici. Ma qual è il suo rapporto col ” miracoloso” ? E soprattutto con Dio?

<< Me lo sono chiesto spesso e mi sono trovato appunto, per oltre un trentennio a indagare il sacro e il profano mettendo in discussione tutto quello che la Chiesa ci ha inculcati. Prima di questa mostra feci una performance a Napoli, che si chiamava ” L’angelo metropolitano” ed era questo angelo con piume enormi che viaggiava per la Linea 1 della metropolitana e questo angelo, che scelsi di proposito di colore, dispensava ai viaggiatori le schedine del bancolotto. Chi vinceva si metteva in contatto con l’angelo. Ho voluto creare l’incontro, l’incontro con l’altro, il divino e il profano unito alle credenze partenopee legate alla scaramanzia e alla fortuna>>

-In un’altra mostra Lei ha creato una installazione intitolata ” La sedia” che ha suscitato molto scalpore…

<< L’impianto fu costruito allo studio a Milano. La cornice barocca è stata realizzata da un artigiano napoletano; nell’83 feci una mostra al Castel dell’Ovo proprio con quella sedia e da allora tutti mi riconobbero e associarono a ” l’artista della sedia”. Per liberarmi di quella etichetta, inventai quella sequenza di fotografie e mi dissi : ok, da oggi in poi piglio ‘ sta sedia e la lancio fuori dal quadro ! La prendo a calci, la brucio…davanti a tutti. Un atto di protesta contro la mia stessa arte che divenne poi performance. >>

Un atto dissacratorio, verso la sua stessa arte, quasi una catarsi…

<< Gioco molto con la dissacrazione in tutta la mia arte, mi viene in mente infatti quando mi inventai una cosa che collegava il panificio Rescigno a via Foria e la pescheria a Montesanto. Diedi in dotazione una cartina che segnava proprio la strada che porta da Foria a Montesanto o a piedi o con altri mezzi. Al centro c’era una gigantografia di una mia opera che rappresentava la moltiplicazione dei pani e invece presso la pescheria azzurro misi la moltiplicazione dei pesci. Un ‘altra operazione sempre su Napoli, la chiamai ” il miracolo”. Feci travestire i miei allievi tutti da preti e li localizzai a Monte Santo e loro in questo percorso incontravano dei preti veri, ci fu uno scontro bello e divertente >>

– E’ giusto che l’artista spieghi le sue opere? Oppure l’artista può avvalersi del diritto di non spiegare ciò che crea?

<< Le opere non si spiegano, c’è un mistero e dove inizia il mistero inizia anche la magia dell’arte. Ci si emoziona. Le è mai capitato di uscire da un museo o da una mostra col mal di stomaco? Bene, vuol dire che in modo inspiegabile alcune di quelle opere hanno colpito una sua sfera personale. Quando mi vengono a dire io voglio fare l’artista, io dico di cambiare mestiere. Dalle droghe si esce,  di arte si muore. L’artista muore in verticale, le persone comuni in orizzontale. Gli artisti muoiono davanti all’opera nell’atto creativo, dove c’è il respiro. C’è un coattare, un continuare l’opera che non è mai veramente finita. E l’opera incompiuta è il pane quotidiano di un vero artista. Chi fa questo mette tutto nel calderone è un rischio.>>

Non si può essere artisti a metà dunque…

<< L’artista vibra ad alta velocità. Non è un individuo comune. Gli attivi creativi vogliono la sofferenza, alternata alla calma. Ma anche la violenza, di desiderare la distruzione della propria opera. L’artista deve aspettarsi incomprensione>>

-Può l’arte avere una determinazione nel sociale?

<< C’è sempre la componente sociale nella storia dell’arte. Con Picasso per esempio, con Caravaggio attuale ancora oggi. Se io e te stiamo ancora qui a parlare lo dobbiamo a Caravaggio, perché Caravaggio non ha né tempo né spazio, è l’uomo all’infinito. Vi consiglio la visione del video ”  sangue e bellezza”, lì c’è bellezza anche nelle scene più cruente>>

Un po’ come il concetto di sublime…

<< sì senza dolore non possiamo produrre qualcosa di veramente bello. Oggi molti studenti mi portano a vedere le loro opere tramite i cellulari. Io ho bisogno invece di sentire l’odore degli olii, dell’acquaragia. Agli allievi dico sempre, portatemi anche solo una cartolina, una performance dal vivo, voglio vedere la vita e non la sterilità di un cellulare.>>

la parola Seliah in aramaico vuol dire apostolo, colui che ha una missione specifica. Un po’ come i suoi ” apostoli” dell’esposizione al Pan ”Gli inviati”. Ecco, qual è la sua missione personale? Cosa vuole comunicare?

<< La mostra è nata da un gioco tra i vari ospedali da me visitati. Ho consultato 12 medici e mi hanno ricordato proprio gli apostoli, ognuno con una specializzazione, Giuda per esempio è il neurochirurgo… Posso dire rispondendo alla domanda che tutto è possibile. Specialmente per le persone che come me siedono su una sedia a rotelle. L’arte non ha confini né barriere. Tu ti svegli la mattina con dolori atroci, metti in campo la tua creatività per fare questo ti metti in discussione, crei uno stimolo e chi vuole partecipare all’evento ben venga, si apre una porta. Ma io non sono molto cerebrale, la mia pittura è istintiva però gioca in modo sottile allo stimolo delle sensazioni, mi piace bloccare le persone per spingerle alla riflessione, oggi è tutto veloce, bisogna fermarsi a riflettere>>

Possiamo dire che chi ha intenzione di fare  arte deve mettere da parte tempo e spazio?

<< Bisogna essere consapevoli che l’arte è una cosa seria. Ti prende tutto è come essere marchiati a fuoco. L’arte vuole il suo tempo e il suo spazio. E’ un gioco al massacro. Tu da che parte vuoi stare?>>

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